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Mieloma Multiplo

Il mieloma multiplo (MM) è una neoplasia maligna caratterizzata dalla proliferazione di un clone di plasmacellule, ovvero linfociti B al termine del loro processo maturativo, nel midollo osseo e, nelle fasi più avanzate della malattia, in sedi extramidollari. Le caratteristiche cliniche derivano dagli effetti dell’infiltrazione da parte delle plasmacellule neoplastiche in diversi organi, ed in particolare a livello osteomidollare, e dalla produzione di immunoglobuline (che determinano la “componente monoclonale”) caratterizzate da proprietà fisico-chimiche anomale. Fisiologicamente, infatti, le plasmacellule producono un’ampia gamma di immunoglobuline (anticorpi) finalizzate alla protezione contro le infezioni da agenti patogeni.

Generalmente il MM è preceduto da una condizione pre-neoplastica definita gammopatia monoclonale di incerto significato (MGUS) – presente nel 3% della popolazione con età superiore ai 50 anni – caratterizzata da un rischio di progressione a MM pari all’ 1% l’anno. In alcuni pazienti è possibile inoltre riconoscere la forma asintomatica di MM, detta anche mieloma smoldering, che presenta un rischio di progressione a MM sintomatico superiore, attestandosi al 10-20% l’anno. In queste forme e nelle fasi iniziali di MM sintomatico, il clone neoplastico prolifera nel midollo osseo, mentre negli stadi più avanzati di malattia le plasmacellule maligne possono interessare diverse sedi extramidollari come il sangue (in tal caso si parla di leucemia plasmacellulare) o le cavità corporee (pleure,peritoneo).

Epidemiologia

Tale neoplasia rappresenta circa lo 0,8 % di tutti i tumori e il 10 % di quelli ematologici, con un tasso di incidenza pari a 4,5 e 3,2 casi annui ogni 100.000 abitanti, rispettivamente nella popolazione maschile e femminile italiana. Ciò si traduce in circa 3.400 nuovi casi/anno, con una mortalità pari a circa 2.500 morti/anno. L’incidenza del MM aumenta all’aumentare dell’età: la mediana dell’età alla presentazione è circa 70 anni; meno del 15% dei pazienti ha meno di 60 anni.  

Eziologia

L’eziologia del MM rimane in larga parte sconosciuta. Tuttavia, si considerano fattori di rischio per lo sviluppo di tale patologia l’esposizione a radiazioni ionizzanti e sostanze chimiche (quali vernici, gomme, pesticidi); la stimolazione antigenica ripetuta, determinata da agenti virali quali HHV8, HIV o HCV; infine, la presenza di una malattia autoimmune. Inoltre, sembrano essere implicati fattori genetici, come dimostrato dalla maggiore incidenza della malattia nella popolazione afro-americana e dal riscontro di alcune forme familiari.

Manifestazioni cliniche

La clinica del MM è caratterizzata da:

  1. Lesioni osteolitiche, osteoporosi o fratture patologiche, che si riscontrano circa nel 80% dei pazienti alla diagnosi. Tali lesioni si manifestano con dolore osseo, spesso severo e aggravato dai movimenti, presente nel 60% dei casi. Una grave complicanza di tali lesioni e rappresentata dal crollo vertebrale, che può causare la compressione delle radici o del midollo spinale, portando in alcuni casi alla paraplegia.
  2. Anemia: generalmente normocitica normocromica, presente inizialmente in circa il 70% dei pazienti.
  3. Ipercalcemia: dovuta all’aumentato rimaneggiamento osseo, presente raramente nelle prime fasi della malattia ma più frequentemente negli stadi più avanzati.
  4. Insufficienza renale: insorge in circa il 50% dei pazienti durante la progressione della malattia. Vari fattori vi concorrono, soprattutto la precipitazione della componente monoclonale (definita proteinuria di Bence Jones) nei tubuli distali e nei dotti collettori e l’ipercalcemia.
  5. Infezioni ricorrenti: tipicamente da batteri capsulati e causata da un deficit dell’immunità umorale e cellulare.
  6. Sindrome da iperviscosità: poco frequente, complica generalmente i MM secernenti IgA ed e caratterizzata da disturbi visivi, neurologici, emorragie mucose e manifestazioni cardiovascolari.

Diagnosi e stadiazione

Spesso la diagnosi di MM segue il riscontro occasionale un picco monoclonale all’elettroforesi delle proteine sieriche; in alcuni casi, al contrario, sono i sintomi clinici (come, ad esempio, le algie ossee) che spingono all’esecuzione di esami di approfondimento.

Gli esami ematochimici essenziali sono i seguenti:

  • Esame emocromocitometrico;
  • valutazione della funzionalità renale ed epatica, albumina, beta2-microglobulina e ionemia (in particolare la calcemia)
  • Elettroforesi ed immunofissazione sierica, dosaggio della componente monoclonale e delle immunoglobuline;
  • Dosaggio delle Free Light Chains (FLC);
  • Proteinuria delle 24 ore, immunofissazione urinaria e dosaggio delle catene leggere urinarie (Proteinuria di bence Jones).

E’ necessario inoltre sottoporre il paziente ad aspirato e biopsia osteomidollare, oltre che ad uno skeletal survey, caratterizzato dall’esecuzione di una radiografia dello scheletro in toto ed ev., in casi selezionati, Risonanza magnetica (full spine o whole body) e/o PET/TC.

Come precedentemente descritto e secondo i criteri del International Myeloma Working Group (IMWG) del 2003, si definiscono:

  • MGUS (monoclonal gammopathy of undetermined significance – gammopatia monoclonale di incerto significato) la presenza di una componente monoclonale < 30 g/L e di una quota di plasmacelule all’esame midollare < 10% in assenza di segni di danno d’organo (ovvero: anemia, ipercalcemia, insufficienza renale, lesioni ossee);
  • MM smoldering (asintomatico) viene definito dalla presenza di una componente monoclonale sierica ≥ 30 g/L e/o una quota plasmacellulare all’esame midollare ≥ 10%, in assenza di segni di danno d’organo.
  • MM sintomatico: presenza di almeno un segno di danno d’organo, indipendentemente dall’entità della componente monoclonale e dall’infiltrato di plasmacelule midollare.

I sistemi di stadiazione attualmente in uso per il MM sono 2: il sistema di stadiazione secondo Durie&Salmon e quello secondo ISS (International Staging System) (tabella 1).

Tabella 1. Classificazione secondo Durie&Salmon e ISS.

Terapia

A tutt’oggi il MM è una malattia incurabile e la terapia viene riservata ai casi sintomatici secondo i cosiddetti criteri CRAB (ipercalcemia [C], insufficienza renale [R], anemia [A], lesioni ossee litiche [B]). Gli scopi del trattamento sono il controllo della malattia, il miglioramento della qualità di vita e, infine, il prolungamento della sopravvivenza. Accanto alla terapia con farmaci citotossici, la terapia di supporto, che consiste nella terapia delle manifestazioni cliniche (anemia, ipercalcemia, insufficienza renale, dolore secondario alla presenza di lesioni ossee, infezioni, iperviscosità), svolge un ruolo cruciale. In particolare, il controllo del dolore (presente soprattutto in caso di localizzazioni alla colonna vertebrale) può richiedere un approccio multidisciplinare (farmacologico, radioterapico, ortopedico, neurochirurgico).

Negli ultimi anni, grazie all’introduzione di nuovi farmaci, le opzioni terapeutiche per il MM sono molteplici. Generalmente si distinguono due approcci terapeutici in base all’età del paziente (non necessariamente anagrafica).


Pazienti giovani, ovvero candidabili a terapia ad alte dosi  e trapianto di midollo autologo.

L’introduzione dei nuovi farmaci, quali la talidomide, la lenalidomide e il bortezomib, generalmente in associazione allo steroide, ha permesso di aumentare il tasso di risposta, la sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza globale dei pazienti affetti da MM, soppiantando definitivamente lo schema VAD (Vincristina, Doxorubicina, Desametasone), come dimostrato da numerosi studi pubblicati o in fase di pubblicazione. La scelta del farmaco ottimale viene effettuata in base del profilo di tossicità e alle comorbidità del paziente.

In seguito alla terapia di induzione, i pazienti sono sottoposti ad una chemioterapia di mobilizzazione con Ciclofosfamide a dosi intermedie o alte, in associazione a fattori di crescita granulocitari, per permettere la mobilizzazione delle cellule staminali ematopoietiche nel sangue periferico e, quindi, la loro raccolta mediante la procedura di staminoaferesi. Successivamente i pazienti vengono avviati ad alla chemioterapia di condizionamento, che prevede l’utilizzo del Melphalan ad alte dosi, seguito dalla reinfusione delle cellule staminali autologhe. In casi selezionati è possibile procedere ad un secondo trapianto autologo. Non è ancora stato chiarito il ruolo di una terapia di consolidamento e di mantenimento dopo l’autotrapianto.

Il trapianto allogenico da donatore, nonostante sia l’unico trattamento potenzialmente in grado di eradicare la malattia, è riservato ai pazienti giovani < 50 anni a prognosi particolarmente sfavorevole, in quanto è gravato da una elevata mortalità legata alla procedura.

Pazienti anziani, ovvero non candidabili a terapia ad alte dosi  e trapianto di midollo autologo.

L’introduzione dei nuovi farmaci ha permesso di ottenere dei buoni risultati in termini di sopravvivenza anche nei pazienti anziani o non candidabili ad una terapia intensiva. Alla terapia con Melphalan e Prednisone (MP), introdotta dai primi anni ‘60, è attualmente possibile associare la talidomide (MPT), il bortezomib (VMP) o la lenalidomide (MPR), ottenendo dei tassi di risposta maggiori e un prolungamento della sopravvivenza libera da malattia rispetto al classico MP.

Protocolli attivi

Il nostro Centro è il coordinatore del Registro Triveneto Mieloma, in collaborazione con il reparto di Ematologia & Centro Trapianti di midollo osseo di Bolzano, che mira a  definire e classificare in maniera prospettica, dal punto di vista epidemiologico e clinico i pazienti con mieloma multiplo nel territorio del Triveneto. Il principale obiettivo è quindi la creazione di un database informatico che consenta la registrazione e l’analisi dei dati di ogni singolo paziente in maniera omogenea e standardizzata.

Presso la nostra struttura sono attivi i seguenti protocolli sperimentali:

  • EMN01: studio multicentrico, randomizzato, controllato, di fase III a tre bracci paralleli per determinare l’efficacia e la sicurezza di lenalidomide in combinazione con desametasone (Rd) versus lenalidomide, melphalan e prednisone (MPR) versus lenalidomide, ciclofosfamide e prednisone (CPR) in pazienti anziani (età ≥ 65 anni) con nuova diagnosi di mieloma multiplo.
  • HO95_EMN02: Studio di fase III, randomizzato, per confrontare Bortezomib, Melphalan, Prednisone (VMP) con Melphalan ad alte dosi seguito da Bortezomib, Lenalidomide, Desametasone (VRD) come consolidamento e Lenalidomide in mantenimento in pazienti con nuova diagnosi di mieloma multiplo (età 18-65 anni).
  • 26866138MMY2069: studio multicentrico di fase II di velcade (bortezomib) sottocute più melphalan e prednisone orale o più ciclofosfamide e prednisone o più prednisone in pazienti anziani con nuova diagnosi di mieloma multiplo (età ≥ 75 anni o < 75 anni con anomalie cardiache, polmonari, renali o epatiche (non candidabili per protocolli con criteri di inclusione/esclusione standard).
  • ZMP-1: studio di fase I/II, multicentrico, in aperto con vorinostat in associazione con melphalan e prednisone (ZMP) in pazienti con mieloma multiplo avanzato o refrattario (età ≥ 18 anni)
  • MM-003: studio di fase III, multicentrico, randomizzato, in aperto, per confrontare l’efficacia e la tollerabilità della Pomalidomide in combinazione con basse dosi di desametasone versus alte dosi di desametsone in pazieni con mieloma multiplo refrattario o recidivato (età ≥ 18 anni)
  • BDT-01-2011: studio multicentrico di fase II per valutare l’efficacia e la sicurezza di bendamustina, desametasone e talidomide in pazienti con mieloma multiplo ricaduti o refrattari dopo un trattamento con lenalidomide e bortezomib o ineleggibili alla terapia con tali farmaci (età ≥ 18 anni).
  • MM-Rel: studio di fase III di confronto tra bortezomib, ciclofosfamide e desametasone rispetto a lenalidomide, ciclofosfamide e desametasone in pazienti con mieloma multiplo in prima ricaduta (età 18-75 anni).
  • CC-5013-PASS-001: studio osservazionale sulla sicurezza della terapia con lenalidomide.
  • PD-CPN1: Studio osservazione sulla neuropatia indotta dalla chemioterapia nei pazienti affetti da mieloma multiplo e in terapia con lenalidomide.

Linfomi non Hodgkin

I linfomi non Hodgkin (LNH) sono nel loro complesso la neoplasia ematologica più frequente e costituiscono il 3% di tutti i tumori maligni e il 70% di tutti i linfomi. In base ai dati dell’AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) nel periodo 1998-2002 i LNH hanno causato il 2,8% del totale dei decessi tumorali fra gli uomini e il 3,6% fra le donne. L’incidenza dei LNH varia secondo il tipo istologico e dell’area geografica, tuttavia essa appare in continua crescita e aumenta all’aumentare dell’età, anche se alcuni LNH aggressivi tendono a interessare i soggetti giovani – adulti (30-40 anni).

Eziologia

I fattori causali di questa malattia non sono ancora ben noti. Esistono, come nel linfoma di Hodgkin, dei fattori predisponenti, a seconda del sottotipo istologico di linfoma, quali agenti infettivi come il virus di Epstein-Barr (EBV, lo stesso agente causale della mononucleosi), l’herpes virus umano HHV-8, il retrovirus HTLV-1 (Human T-lymphotropic virus 1 o Virus T-linfotropico dell’uomo), il virus dell’epatite C (HCV), il batterio Helicobacter pylori; condizioni di disregolazione del sistema immunitario, come la presenza di malattie autoimmuni (ad esempio malattia celiaca o le tireopatie), stati di immunodeficienza (inclusa la sindrome di immunodeficienza acquisita – AIDS – causata dal virus HIV) e di immunosoppressione (post-trapianto d’organo); l’esposizione ad alcune sostanze tossiche.

Caratteristiche istologiche

Le cellule neoplastiche dei LNH derivano da linfociti e possono esprimere il fenotipo di membrana di tipo B (più frequentemente), di tipo T o NK. Secondo la classificazione WHO (World Health Organization) del 2008 si contano oltre 60 entità clinico-patologiche, classificate, per quanto possibile, in base alla corrispondente controparte normale: si distinguono pertanto le forme che derivano dai precursori B e T linfocitari e forme che originano da linfociti maturi, con caratteristiche istologiche, biologiche e cliniche molto diverse tra loro. In base all’andamento clinico i LNH possono essere ulteriormente distinti in “aggressivi” o “ad alto grado di malignità” (Figura 1), caratterizzati da una maggiore aggressività che richiede un trattamento tempestivo, e “indolenti” o a “basso grado di malignità” ma con minori possibilità di guarigione definitiva.

Figura 1. Linfoma non Hodgkin B diffuso a grandi cellule, biopsia linfonodale.

Manifestazioni cliniche

Nella maggioranza dei pazienti l’esordio di un LNH è caratterizzato dalla comparsa di una tumefazione in sede linfonodale superficiale senza sintomi d’accompagnamento. Nel 30% dei casi  è presente una localizzazione in sede extra-nodale (ovvero in qualsiasi organo non linfoide), in particolare il midollo osseo, la cute, il tratto gastro-intestinale, il testicolo, il fegato, il sistema nervoso centrale, l’apparato scheletrico, il miocardio e pericardio, il polmone e la pleura. In alcuni tipi di linfoma (come il linfoma primitivo del mediastino) si riscontra il coinvolgimento dei linfonodi del mediastino come unica sede di malattia, con la presenza di una massa bulky (ovvero maggiore di un terzo del diametro toracico) (Figura 2).

Figura 2. Rx del torace di una paziente con linfoma primitivo del mediastino. Massa bulky mediastinica.

Il mediastino è lo spazio toracico compreso tra le due cavità pleuriche ed è delimitato anteriormente dallo sterno, posteriormente dalla colonna vertebrale, lateralmente dalle pleure mediastiniche, superiormente comunica direttamente con le fasce cervicali attraverso uno spazio definito “stretto toracico superiore” ed inferiormente è delimitato dal diaframma. La presenza di una massa mediastinica può determinare sintomi compressivi, compromettendo le vie aeree, quali tosse stizzosa, dolore toracico, dispnea (“fame d’aria”), o sintomi correlati alla compressione dei vasi, ovvero la sindrome della vena cava superiore, caratterizzata da congestione ed edema dei tessuti del capo, del collo, della parte superiore del torace e degli arti superiori (edema a mantellina), spesso associata a trombosi venosa.

La maggior parte dei pazienti affetti da linfomi indolenti è asintomatico, tuttavia, soprattutto in caso di masse bulky (ovvero una massa linfonodale di dimensioni superiori ai 10 cm o, come detto,  allargamento mediastinico maggiore di un terzo del diametro toracico) possono concomitare sintomi sistemici definiti “sintomi B”, quali febbre intermittente, sudorazioni profuse, soprattutto notturne e perdita di peso (non secondaria a diete). Tali sintomi sono più frequenti nelle forme più aggressive.

Diagnosi, stadiazione e definizione dei fattori prognostici

Per la diagnosi iniziale di LNH è essenziale eseguire una biopsia escissionale di un linfonodo o di una sede extra-linfonodale sospetti per localizzazione di malattia.

Per “stadiazione” si intende la valutazione dell’estensione della malattia. Le metodiche strumentali utilizzate sono la radiografia del torace, la TC del collo-torace-addome (tomografia computerizzata) con mezzo di contrasto, la PET/TC (tomografia ad emissione di positroni combinata con la TC) e la biopsia osteomidollare. Altre indagini che vengono eseguite in casi selezionati sono: risonanza magnetica (RM) di encefalo/orbite e/o rachicentesi (puntura lombare) nel caso vi sia il rischio o il sospetto di localizzazioni al sistema nervoso centrale (SNC); ecografia testicolare; esofago-gastro-duodenoscopia (EGDS) e colonscopia, nel caso vi sia il rischio o il sospetto di localizzazioni a livello del tratto gastro-intestinale; visita otorinolaringoiatrica con laringoscopia, nel caso di sospetta localizzazione nel cosiddetto “anello del Waldeyer”, ovvero il tessuto linfatico associato alle vie aero-digestive, che comprende tonsille palatine, il tessuto linfatico del rinofaringe e della base della lingua. Queste indagini permettono di definire lo stadio della malattia, come nel linfoma di Hodgkin, secondo il sistema di stadiazione di Ann Arbor, che prevede uno STADIO I in caso di interessamento di un solo linfonodo o di una sola stazione linfonodale; uno STADIO II in caso di interessamento di due o più stazioni linfonodali, tutte al di sopra o sotto il diaframma; STADIO III in caso di interessamento di stazioni linfonodali sia sopra che sotto il diaframma; STADIO IV in caso di interessamento di strutture extra-linfatiche (Figura 3).

Figura 3. Sistema di stadiazione di Ann Arbor.

In base alla presenza dei sintomi B lo stadio viene ulteriormente distinto in A (assenza dei sintomi) o B (presenza dei sintomi). Il termine Bulky viene usato per identificare una massa tumorale di grandi dimensioni (come definito sopra). Alla diagnosi vengono inoltre eseguite altre indagini volte a indagare la funzionalità d’organo, quali esami ematochimici e sierologici (emocromo con formula, funzionalità epatica e renale, ormoni tiroidei, indici di flogosi quali VES e PCR, profilo proteico, LDH e b2microglobulina, test di gravidanza nelle donne in età fertile); elettrocardiogramma ed ecocardiogramma. Prima di iniziare la chemioterapia, se le condizioni cliniche lo permettono, viene offerta la possibilità di eseguire la conservazione della fertilità (crioconservazione del seme; conservazione del tessuto ovarico o crioconservazione degli ovociti) (Tabella 1).

Tabella 1. Procedure di stadiazione e work-up iniziale raccomandato nei pazienti con linfoma non Hodgkin
(*in casi selezionati).

I principali fattori prognostici negativi per i LNH aggressivi sono l’età maggiore di 60 anni, il performance status, ovvero la valutazione delle capacità quotidiane e lavorative, lo stadio della malattia all’esordio, il numero di sedi extranodali interessate, il valore di LDH, la presenza di sintomi sistemici. Altri fattori prognostici sono la leucocitosi per il linfoma mantellare e il numero di sedi nodali e la presenza di anemia per il linfoma follicolare.

Terapia

I LNH sono patologie chemio e radiosensibili, per questo, le strategie terapeutiche prevedono l’utilizzo della chemioterapia, della radioterapia e, più recentemente, dell’immunoterapia (mediante l’utilizzo di anticorpi monoclonali).

Nei LNH di tipo B ad andamento aggressivo l’approccio è generalmente combinato, ovvero caratterizzato dall’utilizzo di schemi di immuno-polichemioterapia, tra cui il più comunemente utilizzato è lo schema R-CHOP, costituito dall’anticorpo monoclonale anti-CD20 (un marcatore di superficie espresso dalle cellule B neoplastiche e dai linfociti B normali) Rituximab, associato ad altri 4 farmaci (Ciclofosfamide, Adriamicina, Vincristina e Prednisone) che vengono somministrati tramite infusione endovenosa (in una vena periferica o, preferibilmente, in una vena centrale tramite l’inserzione di un catetere venoso). Ciascun ciclo viene somministrato ogni 21 giorni (R-CHOP-21); in casi selezionati esso può essere somministrato ogni 14 giorni (R-CHOP-14). Il numero di cicli e l’eventuale radioterapia sulle sedi coinvolte (involved-field) dipende dallo stadio della malattia alla diagnosi e dai fattori di rischio presenti: nei casi più favorevoli è possibile un programma di chemioterapia abbreviato, costituito da 3-4 cicli secondo schema R-CHOP, seguiti da radioterapia, fino ai 6-8 cicli degli stadi avanzati. Gli effetti collaterali del trattamento più frequenti sono la nausea ed il vomito; l’effetto tossico sul midollo osseo, che si manifesta con una riduzione dei globuli bianchi (in particolare dei neutrofili); l’alopecia (ovvero la caduta dei capelli e dei peli) per l’effetto sui bulbi piliferi ed, infine, la spossatezza. Altri effetti di più rara insorgenza sono la comparsa di formicolii alle dita delle mani e dei piedi (segno di neurotossicità dovuta alla vincristina), la cardiotossicità (dovuta all’adriamicina) che può portare a gravi quadri di cardiomiopatia fino allo scompenso cardiaco. Una complicanza della Ciclofosfamide, che generalmente avviene a dosaggi maggiori rispetto a quelli previsti nello schema R-CHOP, è la cistite emorragica, per cui si raccomanda ai pazienti di assumere un’adeguata quantità di liquidi durante il trattamento. Gli effetti collaterali del Rituximab sono per lo più secondari a reazioni allergiche (brivido, rialzo febbrile, soprattutto alle prime somministrazioni, nei casi più gravi broncospasmo e angioedema) e all’immunosoppressione. Per ridurre la frequenza e l’entità delle reazioni allergiche, il farmaco viene premedicato con cortisone, paracetamolo e antistaminici e somministrare il farmaco in infusione lenta.

In caso di manifestazioni in sedi extranodali particolari, quali testicolo, seni paranasali, palato, orbite, masse paravertebrali e midollo osseo, in considerazione dell’elevato rischio di recidiva a livello del SNC, è indicata l’esecuzione di rachicentesi medicate, ovvero l’infusione di sostanze chemioterapiche nel canale vertebrale.

Circa il 50% dei pazienti con linfoma non Hodgkin B diffuso a grandi cellule (che rappresenta circa il 40% dei linfomi diagnosticati nei Paesi occidentali) non ottengono la remissione con la terapia di prima linea o manifestano una recidiva dopo il raggiungimento della remissione. La chemioterapia di salvataggio utilizzata nei pazienti giovani consiste negli schemi R-DHAP (Rituximab, Cisplatino, Citarabina ad alte dosi, Desametasone) o R-IEV (Rituximab, Ifosfamide, Etoposide, Epirubicina) con raccolta delle cellule staminali e successivo trapianto autologo. Per i pazienti che presentano una ricaduta di malattia dopo trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche un’alternativa è rappresentata dal trapianto allogenico (da donatore familiare o da registro). Nel caso di pazienti anziani che, pertanto, non sono candidati alla procedura trapiantologica, possono essere utilizzati programmi di polichemioterapia di salvataggio o terapia con nuovi farmaci, come la Lenalidomide.

Alcuni linfomi, come il linfoma primitivo del mediastino, il linfoma di Burkitt o il linfoma mantellare, richiedono un approccio terapeutico più intensivo, con schemi di chemioterapia intensificata ed eventuale trapianto di midollo autologo (quest’ultimo riservato ai pazienti giovani con linfoma mantellare in prima linea).

Nei LNH di tipo B ad andamento indolente il trattamento è riservato ai pazienti sintomatici per sintomi B o sintomi da compressione, in caso di compromissione della funzionalità d’organo dovuta alla compressione esercitata dalle masse, in presenza di interessamento di particolari sedi extranodali (ad esempio versamento pleurico/pericardico), di citopenia (ovvero in caso di anemia, leucopenia o piastrinopenia). In tal caso la terapia potrà consistere in programmi di immunoterapia (ovvero con Rituximab in moterapia), immuno-chemioterapia abbreviata (R-CHOP come sopra, R-Bendamustina o regimi contenenti Fludarabina) o nella sola radioterapia (in caso di malattia localizzata), oppure nella combinazione di immuno-chemioterapia e radioterapia sulle masse bulky (in caso di malattia sistemica). Recentemente inoltre si sta diffondendo l’utilizzo della radio-immunoterapia, effettuata con l’anticorpo anti-CD20 coniugato a radionuclidi.

In assenza dei criteri per iniziare il trattamento l’approccio utilizzato consiste nel cosiddetto “watchful waiting”, ovvero il follow up periodico in attesa dell’eventuale progressione di malattia.  Esiste una forma particolare di linfoma, il linfoma della zona marginale dello stomaco, che si associa all’infezione da Helicobacter pylori e che, nelle fasi iniziali di malattia, può regredire grazie alla terapia eradicante del batterio.

I pazienti giovani che non ottengono la remissione con la terapia di prima linea o che manifestano una recidiva dopo il raggiungimento della remissione possono giovare di una chemioterapia di salvataggio con raccolta delle cellule staminali e successivo trapianto autologo. Per i pazienti che presentano una ricaduta di malattia dopo trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche un’alternativa è rappresentata dal trapianto allogenico (da donatore familiare o da registro). Nel caso di pazienti anziani che, pertanto, non sono candidati alla procedura trapiantologica, possono essere utilizzati programmi di polichemioterapia di salvataggio.

Attualmente sono in corso numerosi studi (in Italia e all’estero) che stanno testando l’utilizzo di nuovi anticorpi anti-CD20 e altri nuovi farmaci, da soli o in associazione a protocolli standard di terapia, sia in prima linea che nei casi refrattari o in recidiva.

Nei LNH di tipo T (gruppo eterogeneo di linfomi a prognosi sfavorevole che rappresenta complessivamente il 10% di tutti i linfomi) l’approccio terapeutico prevede l’utilizzo dello schema CHOP, seguito dall’intensificazione del trattamento con terapia ad alte dosi e trapianto di midollo autologo. Altri farmaci utilizzati che sono risultati promettenti negli studi clinici per questo tipo di linfomi sono la Gemcitabina, l’Alentuzumab (l’anticorpo monoclonale anti-CD52), il Pralatraxate (un anti-folato), la Romidepsina (un inibitore delle iston-deacetilasi) ed il Brentuximab vedotin (un anticorpo anti-CD30 coniugato ad una tossina).

Studi in corso

Presso il nostro Centro sono attivi o in via di attivazione i seguenti studi multicentrici:

  • Linfomi aggressivi:
  • Studio R-BENDA500: “Studio di Fase II R‐BAC (Rituximab, Bendamustina, Citarabina) come terapia di induzione nei pazienti anziani affetti da Linfoma Mantellare”. Sponsor: Fondazione Italiana Linfomi (FIL).
  • Studio R2-B: “Studio di fase II sull’uso combinato di Bendamustina, Lenalidomide e Rituximab (R2-B) come seconda linea di terapia nei pazienti affetti da linfoma mantellare refrattari o in prima recidiva”. Sponsor: FIL.
     
  • Studio R-BENDA FRAIL: “Rituximab in combinazione con Bendamustina nel trattamento di prima linea di pazienti anziani (> 70 anni) fragili affetti da linfoma diffuse a grandi cellule B: studio di fase II della Fondazione Italiana Linfomi (FIL)”. Sponsor: FIL.
     
  • Studio SCNSL1: “High-Dose Sequential Chemoimmunotherapy for B-Cell Lymphomas With Central Nervous System Involvement”. Sponsor: Intergruppo Italiano Linfomi (IIL).
  • Linfomi indolenti:
    • Studio BO21223: “A multicenter, phase III, open-label, randomized study in previously untreated patients with advanced indolent non Hodgkin lymphoma evaluating the benefit of GA101 (RO5072759) plus chemotherapy compared with Rituximab plus chemotherapy followed by GA101 or rituximab maintenance therapy in responders”.  Sponsor: Roche.
       
    • Studio MO25455: “A study comparing maintenance subcutaneous rituximab with observation only in patients with relapsed or refractory indolent non-Hodgkin’s lymphoma who had responded to Rituximab-based immunochemotherapy induction and two years of maintenance with subcutaneous Rituximab”. Sponsor: Roche.

Linfomi di Hodgkin

“Linfoma” è il nome di un gruppo di tumori che prendono origine dal sistema linfatico. Non è una singola malattia ma un gruppo eterogeneo con caratteristiche epidemiologiche, istologiche, modalità di presentazione e approccio terapeutico. I due tipi principali sono il linfoma di Hodgkin (LH) ed il linfoma non Hodgkin (LNH). Nell’ultima classificazione della WHO (World Health Organization) del 2008 si annoverano 2 forme di LH e più di 40 tipi di LNH.

Il nostro Centro è membro della Fondazione Italiana Linfomi (FIL, www.filinf.it).

Epidemiologia

In base ai dati dell’AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) nel periodo 1998-2002 il linfoma di Hodgkin (LH) ha rappresentato lo 0,5% di tutti i tumori diagnosticati e ha causato lo 0,2% del totale dei decessi per cancro in entrambi i sessi. In media, ogni anno, vengono diagnosticati circa 4 casi ogni 100.000 uomini e 3 casi ogni 100.000 donne.

Il LH è raro nei bambini, ma rappresenta la neoplasia più comunemente diagnosticata negli adolescenti di età compresa tra i 15 ed i 19 anni. Nei Paesi occidentali si osservano due picchi di incidenza: con un primo nella popolazione di adolescenti e giovani adulti (tra i 15 e i 35 anni d’età) ed il secondo nei pazienti con più di 55 anni.

Eziologia

Al momento attuale le cause del LH non sono state ancora chiarite, ma si conoscono diversi fattori predisponenti, quali il virus di Epstein-Barr (EBV, lo stesso agente causale della mononucleosi), condizioni di disregolazione del sistema immunitario, come la presenza di malattie autoimmuni o stati di immunodeficienza, l’esposizione ad alcune sostanze tossiche. I dati epidemiologici relativi alla diversa incidenza della malattia in diverse regioni geografiche e le segnalazioni di famiglie con più membri affetti implicano l’associazione tra fattori ambientali e genetici nella patogenesi del LH.

Caratteristiche istologiche

Secondo la classificazione WHO (World Health Organization) del 2008, il LH viene distinto nella forma classica (95% dei casi), a sua volta suddiviso nelle varietà a sclerosi nodulare, a cellularità mista, deplezione linfocitaria e ricca in linfociti, e la forma a predominanza linfocitaria nodulare (5% dei casi). La caratteristica morfologica peculiare del LH è la presenza delle cellule di Hodgkin e di Reed-Sternberg nella forma classica (Figura 1) e delle cellule lymphocyte-predominant (un tempo chiamate cellule istiocitiche-linfocitiche) nella forma a predominanza linfocitaria nodulare, nel contesto di un infiltrato infiammatorio di tipo reattivo (linfociti, neutrofili, eosinofili, monociti e macrofagi).

Figura 1. Linfoma di Hodgkin classico, cellule di Reed- Sternberg in una biopsia linfonodale.

Manifestazioni cliniche

Nel 70-80% dei casi di LH la prima manifestazione clinica è una tumefazione linfonodale indolente nella regione del collo, in sede laterocervicale o sovraclaveare, senza sintomi di accompagnamento. Nel 60% dei casi si riscontra il coinvolgimento dei linfonodi del mediastino. Il mediastino è lo spazio toracico compreso tra le due cavità pleuriche ed è delimitato anteriormente dallo sterno, posteriormente dalla colonna vertebrale, lateralmente dalle pleure mediastiniche, superiormente comunica direttamente con le fasce cervicali attraverso uno spazio definito “stretto toracico superiore” ed inferiormente è delimitato dal diaframma. La presenza di una massa mediastinica può determinare sintomi compressivi, compromettendo le vie aeree, quali tosse stizzosa, dolore toracico, dispnea (“fame d’aria”), o sintomi correlati alla compressione dei vasi, ovvero la sindrome della vena cava superiore, caratterizzata da congestione ed edema del tessuti del capo, del collo, della parte superiore del torace e degli arti superiori (edema a mantellina), talvolta associata a trombosi venosa. Dalla sede iniziale la malattia tende a diffondersi in senso assiale, interessando per contiguità le sedi linfonodali vicine. La diffusione ad organi extra-linfatici (scheletro, polmone, fegato), molto rara all’esordio ma più frequente negli stadi più avanzati, avviene per estensione diretta della massa linfonodale o per disseminazione attraverso il sangue.

Circa il 40% dei pazienti presenta alla diagnosi sintomi sistemici definiti “sintomi B”, quali febbre intermittente, sudorazioni profuse, soprattutto notturne e perdita di peso (non secondaria a diete). Altri sintomi sono il prurito generalizzato (talora di notevole entità), la spossatezza e il dolore in sede di localizzazione linfonodale di malattia scatenato dall’assunzione di alcol, che compare in meno del 10% dei pazienti.

Diagnosi, stadiazione e definizione dei fattori prognostici

Per la diagnosi iniziale di LH è essenziale eseguire una biopsia escissionale di un linfonodo o di una sede extra-linfonodale sospetti per localizzazione di malattia.

Per “stadiazione” si intende la valutazione dell’estensione della malattia. Le metodiche strumentali utilizzate sono la radiografia del torace, la TC del collo-torace-addome (tomografia computerizzata) con mezzo di contrasto, la PET/TC (tomografia ad emissione di positroni combinata con la TC) e la biopsia osteomidollare. Queste indagini permettono di definire lo stadio della malattia, secondo il sistema di stadiazione di Ann Arbor, che prevede uno STADIO I in caso di interessamento di un solo linfonodo o di una sola stazione linfonodale; uno STADIO II in caso di interessamento di due o più stazioni linfonodali, tutte al di sopra o sotto il diaframma; STADIO III in caso di interessamento di stazioni linfonodali sia sopra che sotto il diaframma; STADIO IV in caso di interessamento di strutture extra-linfatiche (Figura 2).

Figura 2. Sistema di stadiazione di Ann Arbor.

In base alla presenza dei sintomi B lo stadio viene ulteriormente distinto in A (assenza dei sintomi) o B (presenza dei sintomi). Il termine Bulky viene usato per identificare una massa tumorale di grandi dimensioni (linfonodali superiori ai 10 cm o allargamento mediastinico maggiore di un terzo del diametro toracico). Gli stadi I e II vengono definiti stadi iniziali, mentre il III e IV sono gli stadi avanzati. Alla diagnosi vengono inoltre eseguite altre indagini volte a indagare la funzionalità d’organo, quali esami ematochimici e sierologici (emocromo con formula, funzionalità epatica e renale, indici di flogosi quali VES e PCR, profilo proteico, LDH e b2microglobulina, test di gravidanza nelle donne in età fertile); elettrocardiogramma ed ecocardiogramma e prove di funzionalità respiratoria (spirometria). Prima di iniziare la chemioterapia, se le condizioni cliniche lo permettono, viene offerta la possibilità di eseguire la conservazione della fertilità (crioconservazione del seme; conservazione del tessuto ovarico o crioconservazione degli ovociti) (Tabella 1).

Tabella 1. Procedure di stadiazione e work-up iniziale raccomandato nei pazienti con linfoma di Hodgkin

I principali fattori prognostici sfavorevoli del LH sono, negli stadi iniziali, l’età superiore a 50 anni, la VES (superiore a 50 mm/h alla diagnosi), la presenza di sintomi B, la presenza di masse bulky, coinvolgimento di più di 3 regioni linfonodali; mentre, negli stadi avanzati, sono considerati fattori sfavorevoli l’età superiore a 45 anni, la leucocitosi (globuli bianchi superiori a 15.000/mL), la linfopenia (linfociti inferiori a 600/mL o all’8% dei leucociti totali), l’anemia (emoglobina inferiore a 105 g/L), albumina < 40 g/L, sesso maschile, ed il coinvolgimento di sedi extra-nodali alla diagnosi. Recenti studi hanno dimostrato inoltre come il risultato della PET/TC, eseguita precocemente durante la terapia, abbia un forte potere predittivo sull’andamento della malattia (Figura 3).

Figura 3: Immagini PET/TC.

Terapia

Negli ultimi 20 anni l’appropriato utilizzo degli schemi di chemioterapia, talora in associazione alla radioterapia, ha permesso di ottenere elevate percentuali di remissioni, sia negli stati iniziali che in quelli avanzati di malattia. Gli studi clinici eseguiti hanno consentito di abbandonare terapie gravate da elevata tossicità a breve e lungo termine (come, ad esempio, lo schema MOPP), prediligendo terapie meno tossiche ma di pari efficacia. Il trattamento standard che viene attualmente utilizzato è lo schema ABVD, costituito da 4 farmaci (Adriamicina, Bleomicina, Vinblastina e Dacarbazina) che vengono somministrati tramite infusione endovenosa (in una vena periferica o, preferibilmente, in una vena centrale tramite l’inserzione di un catetere venoso). Ciascun ciclo viene somministrato ogni 28 giorni (4 settimane); esso consiste in 2 somministrazioni a distanza di 15 giorni (2 settimane) (dal punto di vista pratico il paziente viene sottoposto a chemioterapia ogni 2 settimane). Negli stadi avanzati un’alternativa è lo schema BEACOPP escalated o baseline (Bleomicina, Etoposide, Adriamicina, Ciclofosfamide, Vincristina, Procarbazina, Prednisone), che permette di ottenere delle percentuali di risposta superiori ma è gravato da notevole tossicità, a breve e a lungo termine. Il numero di cicli e l’eventuale radioterapia sulle sedi coinvolte (involved-field) dipende dallo stadio della malattia alla diagnosi e dai fattori di rischio presenti: nei casi più favorevoli è possibile un programma di chemioterapia abbreviato, costituito da 2 cicli secondo schema ABVD, seguiti da radioterapia; fino ai 6 cicli degli stadi avanzati. Gli effetti collaterali più frequenti sono la nausea ed il vomito; l’effetto tossico sul midollo osseo, che si manifesta con una riduzione dei globuli bianchi (in particolare dei neutrofili); l’alopecia (ovvero la caduta dei capelli e dei peli) per l’effetto sui bulbi piliferi ed, infine, la spossatezza. Altri effetti di più rara insorgenza sono la comparsa di formicolii alle dita delle mani e dei piedi (segno di neurotossicità dovuta alla vinblastina), la cardiotossicità (dovuta all’adriamicina) che può portare a gravi quadri di cardiomiopatia fino allo scompenso cardiaco; la tossicità polmonare (bleomicina, specie se associata alla radioterapia); lo sviluppo di secondi tumori, sia ematologici che extra-ematologici.

Circa il 15-20% dei pazienti con stadio iniziale ed il 35-40% degli stadi avanzati non ottengono la remissione con la terapia di prima linea o manifestano una recidiva dopo il raggiungimento della remissione. La chemioterapia di salvataggio utilizzata consiste negli schemi IEV (Ifosfamide, Etoposide, Epirubicina), IGEV (Ifosfamide, Gemcitabina, Vinorelbina) o DHAP (Cisplatino, Citarabina ad alte dosi, Desametasone) con raccolta delle cellule staminali e successivo trapianto autologo. Per i pazienti che presentano una ricaduta di malattia dopo trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche, vengono utilizzati nuovi farmaci, come la bendamustina ed il brentuximab vedotin, seguiti da trapianto allogenico (da donatore familiare o da registro).

Numerosi sono gli studi clinici in corso (in Italia e all’estero) che stanno testando nuovi farmaci (inibitori delle iston-deacetilasi, inibitori di mTOR, immunomodulanti, etc) da soli o in associazione a protocolli standard di terapia, sia in prima linea che nei casi refrattari o in recidiva.

Studi in corso

Presso il nostro Centro sono attivi i seguenti studi multicentrici:

  • Studio GITIL-HD0607: ”Multicentre clinical study with early treatment intensification in patients with high-risk hodgkin lymphoma, identified as FDG-PET scan positive after two conventional ABVD courses”. Sponsor: Gruppo Italiano Terapie Innovative nei Linfomi (G.I.T.I.L.)
     
  • Studio FM-HD09-01: “Phase III study comparing Rituximab-supplemented ABVD (R-ABVD) with ABVD followed by involved-field radiotherapy (ABVD-RT) in LIMITED-stage (STAGE I-IIA WITH NO AREAS OF BULK) Hodgkin’s lymphoma”. Sponsor: Fondazione Michelangelo.
     
  • Studio 2P-HD10: ”Interim PET con studio di acquisizione a due tempi (2P-PET) effettuata dopo 2 cicli di chemioterapia con ABVD nel Linfoma di Hodgkin in stadio limitato con lesioni linfonodali “bulky” – 2P-HD10”. Sponsor dello studio: Fondazione Italiana Linfomi (FIL).

Leucemia Linfatica Cronica

La leucemia linfatica cronica (LLC) è una malattia linfoproliferativa cronica, caratterizzata dall’accumulo di piccoli linfociti maturi nel sangue periferico, nel midollo, nei linfonodi e nella milza. Per definizione è una patologia ad andamento cronico, ma la prognosi può essere estremamente variabile.

Epidemiologia

La LLC è la leucemia più frequente nella popolazione adulta occidentale, con un riscontro di circa 5 nuovi casi all’anno ogni 100.000 abitanti. Tale patologia interessa prevalentemente i maschi e la sua incidenza aumenta con l’avanzare dell’età; l’età media alla diagnosi è di circa 65 anni.

Dal 2008 la nostra Unità Operativa partecipa, assieme alle principali Ematologie del Veneto, alla creazione di un registro che raccoglie, in forma anonima, le principali informazioni cliniche relative ai pazienti affetti da LLC. Tale iniziativa, chiamata “Progetto Veneto per la LLC”, ha lo scopo di migliorare le conoscenze epidemiologiche e biologiche di questa malattia.

Eziopatogenesi

Tra le possibili cause vi possono essere alcuni fattori cancerogeni ambientali, come il benzene e le radiazioni ionizzanti, e alcuni fattori genetici. L’eziologia di questa malattia, tuttavia, non è ancora nota.

Sintomi

L’esordio e il decorso clinico possono essere estremamente variabili. La diagnosi spesso viene effettuata in pazienti asintomatici, attraverso esami di laboratorio effettuati per altri motivi. In altri casi vi può essere la comparsa di debolezza, calo di peso, febbricola, prurito e sudorazioni notturne, in associazione all’aumento delle dimensioni di linfonodi, fegato e milza. Talvolta  si possono riscontrare disturbi autoimmunitari o aumentata tendenza alle infezioni.

Diagnosi

La diagnosi si basa sull’esame dell’emocromo, sullo studio morfologico del sangue periferico e midollare e sull’analisi immunofenotipica dei linfociti. Il sospetto diagnostico generalmente origina dal riscontro di un persistente aumento dei linfociti (> 5.000/mmc). Altri esami sono eseguiti per determinare l’estensione della malattia e le eventuali complicanze ad essa correlate: latticodeidrogenasi, profilo proteico, dosaggio delle immunoglobuline, test di Coombs, studio della funzionalità renale ed epatica.

Per una corretta stadiazione della malattia è fondamentale un esame fisico del paziente, con particolare attenzione alla presenza di aree linfonodali ingrossate o di un aumento di volume del fegato e della milza. Esami radiologici più approfonditi (un ecografia del collo e dell’addome oppure una TAC total-body) potranno essere utilizzati per una valutazione più precisa. Potrà essere infine eseguito un aspirato midollare e una biopsia del midollo.

Stadiazione

I sistemi di stadiazione clinica sono il sistema di stadiazione secondo RAI e quello secondo BINET, che si basano sulla presenza della linfocitosi, anemia o piastrinopenia, e aumento delle dimensioni di linfonodi, fegato o milza.

Accanto alla stadiazione clinica, vi sono nuovi fattori prognostici che consentono di classificare il paziente in diverse categorie di rischio riguardo l’andamento della malattia. Al momento della diagnosi vengono effettuati dei prelievi ematici per individuare la presenza di alterazioni citogenetiche  (delezione a livello del cromosoma 11, 13 e 17), per la ricerca delle mutazioni del gene  IgVh e dell’espressione di CD38 o ZAP-70. Gli esiti di tali esami consentiranno di stabilire per il paziente il follow up più adeguato e, in caso di necessità, la terapia più efficace.

Evoluzione clinica

Durante la storia della malattia possono comparire  disturbi autoimmunitari, quali anemia emolitica, piastrinopenia autoimmune e, più raramente, manifestazioni autoimmunitarie della cute. A causa di un difetto immunitario acquisito, correlato alla malattia, vi può essere una più frequente insorgenza di complicanze infettive, sia batteriche che virali.

Vi è inoltre un aumentato rischio di neoplasie secondarie, soprattutto a carico della cute e della prostata ma anche sindromi mielodisplastiche e leucemie acute. Infine la LLC può trasformarsi in una patologia linfoproliferativa più aggressiva (Sindrome di Richter) associata ad un veloce peggioramento delle condizioni cliniche generali e alla rapida comparsa di linfoadenomegalie. In rari casi la LLC può trasformarsi in una leucemia prolinfocitica.

Terapia

Secondo le linee guida internazionali, la terapia per la LLC deve essere iniziata solo in caso di malattia sintomatica, cioè in presenza di aumento delle dimensioni di linfonodi, fegato o milza, in caso di comparsa di anemia o piastrinopenia o in caso di marcato aumento del numero dei linfociti fino al doppio in un tempo inferiore ai 6 mesi. Se non sono presenti tali segni o sintomi, il paziente sarà solamente seguito nel tempo con periodici controlli.

La terapia più opportuna verrà scelta in base all’età e alle condizioni cliniche del paziente. In pazienti di età inferiore ai 65 anni la terapia di prima scelta prevede l’utilizzo di uno schema chemio-immunoterapico, basato sull’utilizzo di Fludarabina, Ciclofosfamide e Rituximab. In caso di presenza delle delezione del braccio corto del cromosoma 17, verrà utilizzato anche l’Alentuzumab.

Nei pazienti di età superiore ai 65 anni, o affetti da severe patologie concomitanti, verrà preferita una terapia meno aggressiva, solitamente basata sull’utilizzo di Clorambucil, eventualmente in associazione a terapia steroidea.

In caso di recidiva o persistenza di malattia dopo la prima linea di terapia, vi è la possibilità di utilizzare diversi altri farmaci, quali Alentuzumab, Bendamustina, Pentostatina, Cladribina, Ofatumumab, Lenalidomide o altri nuovi farmaci tramite l’inserimento in protocolli sperimentali. In presenza di una malattia particolarmente aggressiva, refrattaria alle terapie e caratterizzata dalla presenza di alterazioni citogenetiche sfavorevoli, verrà considerato anche il trapianto di cellule staminali da donatore.

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